Ci lascia Ninu Manenti u lantirnaru (U russu)
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19 Gennaio 2017Ninu Manenti artigiano dal 1952
Scicli si concede con discrezione al viandante che vi accede dalle curve di san Matteo. Prima una casuzza, poi un’altra, piano piano, si scorge parte della cittadina. Appoggiate sul colle che ospita l’antico convento, le case del quartiere prendono colorazioni color perla a seconda del periodo dell’anno e del momento del giorno. La strada, come un fiume tortuoso, sinuosa e accattivante nelle sue curve segue il letto del torrente san Bartolomeo, ma questa è geografia di tante cittadine dell’area iblea. Un muro basso costeggia la strada e lasciata l’ultima tribuneḍḍa (si chiamano così qui le edicole votive) prima di accedere al paesino invita a guardare ad ampio raggio…Una chiesetta rupestre dedicata alla Vergine, aperta giorno e notte, avvisa il moderno saraceno sulla fede in Maria della nostra gente. Prima che l’ultima curva si apra sulla stupenda chiesa di san Bartolomeo una vecchia bottega solletica la curiosità di chi passa e spassa da lì. “Qualche volta mi fermo” mi dico ma vado sempre di fretta. E forse la ragione per cui non è mai il momento giusto è che da lì non si deve passare per caso. Parcheggio la mia auto poco più giù della bottega. Un uomo all’ interno sta ancora tirando fuori la sua mercanzia, saranno le cinque del pomeriggio o poco più. Sembra un personaggio inventato. Indossa, una maglia a righe un pantalone liso e un grembiule di jeans lungo fino ai piedi con una enorme tasca sulla pancia. Lo osservo mentre entra ed esce dalla sua minuscola bottega.
I suoi movimenti lenti tradiscono una lieve incertezza, forse la stanchezza di una vita di lavoro. Sistema il suo spazio antistante la botteguccia. Un cartello annuncia: “piccolo museo della latta e del rame. Artigiano. Antica putia ri Ninu Manenti u Russu, u lantirnaru dal 1952”. Addossati al cartello, gigantografia di un biglietto da visita con tanto di numeri di telefono e indirizzi e-mail, si reggono l’un l’altro ogni genere di oggetti: scope, grattugie secchi. E quartare di ogni tipo: per l’acqua, per l’olio, per il vino, per il latte. Tinozze per la ricotta e arnesi per il forno.
Una sull’ altra le tipiche cassette utilizzate dagli ortolani per gli ortaggi ospitano ogni genere di oggettino in latta, ferro, lamiera. Il tutto sistemato sul marciapiedi. Non come una invasione di campo ma piuttosto come un invito a fermarsi. Fermarsi e chiacchierare. Si, perché Ninu u Ṛussu più che un venditore di oggetti è un imbonitore più che altro di sé stesso, con la sua storia narrata tra un ferro da stiro e una lanterna di rame. Mi muovo con circospezione all’interno della piccola bottega in tutto larga in paio di metri o poco più, e profonda circa quattro. Veramente dire all’interno è improprio. Presto mi accorgo che lì dentro per lui, per la sua mercanzia e per me non c’è proprio posto, e lui stesso con un comunicato scritto di suo pugno raccomanda: “guardare, non toccare, per favore se no cade tutto”.
Il gentile monito penzola dal soffitto che straripa di mercanzia appesa: chiavi, ganci, martelli, telai, posate da cucina fotografie e si collega con un altro avviso grazie a un filo teso assicurato a una molletta per la biancheria, in plastica. Quest’ultimo sembra più un monito a se stesso che un invito all’ avventore: “senza sordi nun si canta missa ne u saristanu aṛṛispunna. Ai capito!”. Nino mi invita a guardare.
Sono attratta dai ferri da stiro. Ne scorgo almeno sette o otto in uno scaffale sotto i miei occhi. Nino me ne tira fuori uno. E poi ne cerca un altro. Intanto mentre cerca cadono pezzi. Mi dispiaccio, ma lui mi rassicura: “non ti preoccupare! qui cade tutto”. Mentre cadono i pezzi lui li raccoglie e li lancia, non curante alle sue spalle. Adesso mi è chiaro. Quella lentezza di movimenti che mi era parsa stanchezza altro non era che circospezione. Nino conosce bene la sua bottega e non si cura di ciò che all’interno rotola perché in fondo rimane lì dentro! “Nella mia vita ho sbagliato due cose: una delle due è che non ho comprato il locale di fronte, oggi avrei più spazio”. Dubito. Lo avrebbe riempito di più cose semmai. L’altro grave errore Nino non me lo confessa e io non indago. Ogni tanto mi fa vedere un libro di fotografie, dove lui è ritratto mentre lavora, poi un’agenda impolverata piena di autografi, testimonianza del passaggio di personalità attratte anche loro da questo luogo incantato. “Rai uno, rai due, sereno variabile, il resto del carlino, overland: iu ca tutti l’ha –vutu!”. In un angolo riconosco un campanaccio come quelli che pendevano dal collo delle bestie in campagna. Gli ricordo che le campane dovevano tacere a Pasqua e come da un cilindro di un mago Nino tira fuori un altro campanaccio, più grande è poi un altro più piccolo e poi ancora un altro di dimensioni ridotte, poi ancora. Quando si sposta per cercarne altri cadono quelli che ha trovato e sembra festa. Intanto parla con me ma il rumore di ciò che rotola dietro di lui mi fa perdere parte di ciò che dice. È concentrato nella sua ricerca: finalmente trova. Tira fuori un arnese di legno costruito con tre piastre. È grande per lo più quanto la mia mano. Le tre piastre di legno sono poste l’una sull’altra assicurate da un solo lato da un cordino. Una delle tre, la centrale, ha anche una sorta di manico . “Pi Pasqua c’era u campanuni ranni ca era cinquanta pi cinquanta e u sunava u saristanu quannu ia ghiennu po quartieri”. È una campana di legno! i falegnami la realizzavano proprio per Pasqua quando tacevano le campane per il lutto ma bisognava comunque richiamare i fedeli alla funzione sacra. A volte faccio fatica a seguire quello che dice, poi però mi accorgo che quando perdo il filo del discorso è perché lui parla tra sé e sé seguendo il filo logico dei suoi ricordi. Gli chiedo di mostrarmi un ferro da stiro. Nino si gira e comincia la ricerca… uno due, tre, ne prende un altro e poi un altro “ne ho almeno cinquanta qui ma altri li ho a casa”. Sono meravigliosi, di ogni forgia ed epoca. Anni cinquanta, con tanto di presa e filo, e poi un ferro in fusione di ghisa col manico lavorato, e poi ancora ferri con lo spazio per la caldaia dove riporre il carbone, altri col manico in legno e poi quelli più moderni con il vano per la piastra incandescente. I più belli, a mio avviso, però, sono quelli in ottone, decorati e traforati, che hanno la chiusura del vano caldaia assicurata da un lucchetto dalla forma di testa di donna, di cane, di serpente. Gli chiedo il prezzo. Ma lui non li vende.
Tra gli avvisi alla clientela pendono anche alcune fotografie: “chistu è u maṣṭṛu ca m’anzignau u mestieri, ri ramaru e stagnataru era u 1944 in piena guerra, iu ìa a scola a matina e puoi mi nni ìa o maṣṭṛu. Avia a vocazioni. A scola ci ì finu a quinta. U maṣṭṛu, buon anima, riçia: cani a ḍui e picciutti unu. Nun ni vulia picciutti, sulu unu e ghi’era iu. Mi canuscia ri nicu”.nota: questo è l’artigiano che mi ha insegnato il mestiere di stagnino. Era il 1944 in piena guerra, la mattina andavo a scuola e poi andavo alla bottega. Mi piaceva lavorare. A scuola sono andato fino alla quinta. Il mastro , buon anima diceva cani in coppia ma garzoni uno solo. Non voleva garzoni, solo uno ne voleva ed ero io Mentre parla Nino continua la sua ricerca e finalmente trova una lanterna. Lui dice “è una candela dei cavalieri del 1700”. Ma ne ha degli anni venti, di ogni forgia e con minuscole decorazioni. Me le mostra ma seguita a parlare: “U maṣṭṛu era buonu macari a –nzittari a vintura! Noi stagnini squagghiaumu u stagnu poi lo buttavamo in fondo a un secchio e da come cadeva sapevamo predire il futuro: ma non era vero niente!”. Chiedo a Nino se ricorda qualcosa a proposito di qualche festa religiosa: “A Scicli per la festa di San Giovanni le mamme facevano U pumu. ri san Giuvanni. Era un’usanza delle famiglie povere che facevano le bamboline alle figlie femmine con una mela. La mamma faceva gli occhi la bocca e il naso. Poi con due bastoncini in forma di croce faceva il busto e poi la vestiva. Era l’unica pupa che potevano avere. Poi si portavano in chiesa a benedirle. Noi maschietti per la fame ci mettevamo all’altare con la scusa di fare i chierichetti, e le rubavamo e ce le mangiavamo. E le bambine se ne facevano tuttu çiantu!”. Mentre parla Nino saluta i passanti, qualcuno si ferma e si aggiunge. Lui parla e tira fuori la sua preziosa mercanzia che però vende a fatica essendo parte di un forziere che racchiude il suo passato di duro lavoro. “Ho sempre vissuto qui. Solo per poco tempo me ne sono andato a Milano a lavorare. A Milano vivevamo tutti in una stanza e per lavarci la faccia al mattino ci dovevamo lavare tutti a turno in un secchio. Io piangevo tutto il giorno, ero giovane e mi chiedevo: cosa sono venuto a fare qui se sono più povero di prima? Me ne sono andato alla stazione però putroppo ho incontrato a un amico mio e mi ha detto di non partire ma io poi me ne sono venuto a Scicli. E ho sempre abitato qui. Prima con mio padre e mia madre poi questo è diventato il posto di lavoro. Quando eravamo piccoli c’era fame. Molta fame. Mio padre mi sapeva al sicuro dal mastro ma lui mi dava da mangiare solo quando la pasta rimaneva. E in genere non rimaneva mai. Mio padre mi vedeva magro e poi un giorno ha capito e ha chiesto spiegazione. La risposta è stata secca: iḍḍu m’arrobba u mistieri!”, mi ruba il mestiere. Improvvisamente a bordo di una lambretta arriva un signore, è Turi u Luoncu me lo presenta Nino, e subito dopo si ferma un’Ape Piaggio verde è –Nzulu u Puorcu. Ninu u Russu li accoglie. I tre formano una cellula che non è il caso di disturbare. Spengo il mio registratore e fotografo prima di andarmene. Dal soffitto tra le mercanzie, appesi a strani ganci pende anche un enorme numero di santini, tra loro intercetto figure da sempre note: il Papa, solo Woytila, Padre Pio, sant’Antonio, san Francesco, la Madonna in un gran numero di versioni, e poi santa Lucia. “Iu sugnu divotu!”.
Marcella Burderi